Gli algoritmi ci conoscono meglio di noi stessi?
Storicamente, gli algoritmi sono stati materia di studio per ingegneri, matematici e fisici. Con l’invenzione dei computer e l’avvento dell’Era Digitale, questi strumenti sono stati sfruttati non solo per compiere complessi calcoli aritmetici, ma anche per automatizzare molte attività quotidiane.
È chiaro che il potenziale di questi strumenti non possa essere ignorato. Tuttavia, per evitare di essere “controllati” dalle nuove tecnologie è necessario, prima di tutto, conoscerne funzionalità e comprenderne i limiti. Solo in questo modo potremo utilizzarle per migliorare la nostra vita, senza divenirne vittime.
Cos’è un algoritmo?
Un algoritmo è una sequenza ben precisa di regole in un processo di calcolo. Nella vita di tutti i giorni possiamo trovare algoritmi molto semplici, come ad esempio le formule che immettiamo in Excel, o molto complessi, come quelli che alimentano e “addestrano” Netflix a presentarci una lista di film sulla base delle nostre preferenze. Anche se il termine è in uso da secoli, l’interesse su questi processi di calcolo si è esteso fino a diventare una parola molto diffusa nel dibattito sulla tecnologia moderna, a causa della enorme mole di dati che ognuno di noi genera ogni giorno, e della conseguente necessità di analizzarli in maniera efficace, in tutti gli ambiti.
Gli algoritmi in una società interamente digitalizzata
Gli algoritmi, infatti, sono ovunque: da quelli che guidano le rotte degli aerei a quelli che ci aiutano a trovare la cura per le malattie, alla domotica che “impara” la nostra routine e sistema la casa per il nostro rientro dal lavoro.
Di fatto gli algoritmi hanno assunto un ruolo centrale in molti ambiti della nostra vita quotidiana. Tuttavia, è necessario non permettere che siano le sequenze di istruzioni a decidere cosa sia meglio per noi o, addirittura, chi siamo noi. Infatti, le modalità con cui ci interfacciamo con gli altri, organizziamo il nostro lavoro e pensiamo, sono ormai influenzate dalla presenza di dispositivi digitali, come computer, cellulari, ecc. che usiamo quotidianamente, e gli algoritmi delle app e programmi che utilizziamo (come Youtube, Facebook, Instagram) determinano quello che ci viene mostrato nella Home ogni volta che ci connettiamo. La stessa cosa avviene con le pubblicità che ci vengono mostrate, le offerte via mail, i piani assicurativi, e molto altro.
Chi programma chi?
Nonostante i benefici che gli algoritmi hanno portato nella nostra vita, la diffusione pervasiva del digitale rischia di ri-programmare e ri-organizzare tempi e spazi dell’uomo. E sebbene vi siano aspetti positivi nella automazione dei processi (basti pensare ad ambiti come la sanità, l’e-learning, la sicurezza, i modelli predittivi sul clima e molti altri), bisogna sempre essere coscienti dei casi in cui gli algoritmi non lavorano come dovrebbero, o gli venga dato troppo peso nella catena delle decisioni, soprattutto in ambiti sensibili. Ad esempio, le assicurazioni possono usare i dati dei propri clienti per prevedere e calcolare rischi connessi al loro stile di vita, mente è già capitato che alcuni processi di automazione del reclutamento abbiano discriminato le donne in Amazon. Infine, alcuni algoritmi giudiziari per l’individuazione di situazioni pericolose sono stati colpevoli di discriminare in base all’etnia.
Data la portata della loro espansione e rilevanza, è giunto il momento di comprendere l’importanza di un loro utilizzo consapevole e responsabile. Il fine non è quello di evitarli, ma di poterli usare al meglio, con maggiore controllo e consapevolezza. Il confronto con le nuove tecnologie risulta, ormai, inevitabile.